Sentenza n. 119 del 2023

SENTENZA N. 119

ANNO 2023

Commento alla decisione di

Giuseppe Di Genio

Beni staggiti e beni collettivi nella “dottrina notarile” offerta alla Corte costituzionale

per g.c. del'Osservatorio costituzionale

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Silvana SCIARRA;

Giudici: Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 3, della legge 20 novembre 2017, n. 168 (Norme in materia di domini collettivi), promossi dal Tribunale ordinario di Viterbo, sezione civile, in funzione di giudice dell’esecuzione immobiliare, con due ordinanze del 28 marzo e del 9 maggio 2022, iscritte, rispettivamente, ai numeri 114 e 127 del registro ordinanze 2022 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica numeri 42 e 45, prima serie speciale, dell’anno 2022, la cui trattazione è stata fissata per l’adunanza in camera di consiglio del 22 marzo 2023.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udita nella camera di consiglio dell’11 maggio 2023 la Giudice relatrice Emanuela Navarretta;

deliberato nella camera di consiglio dell’11 maggio 2023.

Ritenuto in fatto

1.– Con due ordinanze di identico tenore iscritte ai numeri 114 e 127 del registro ordinanze 2022, depositate rispettivamente il 28 marzo e il 9 maggio 2022, il Tribunale ordinario di Viterbo, sezione civile, in funzione di giudice dell’esecuzione immobiliare, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 42 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 3, della legge 20 novembre 2017, n. 168 (Norme in materia di domini collettivi), nella parte in cui non esclude la «proprietà di privati di cui all’art. 3, comma 1, lettera d)» dalla previsione secondo cui «[i]l regime giuridico dei beni di cui al comma 1 resta quello dell’inalienabilità».

2.– Il rimettente riferisce che entrambi i giudizi a quibus riguardano procedure esecutive immobiliari, in cui erano stati posti in vendita, sul presupposto della loro alienabilità, beni staggiti gravati da usi civici.

Il Tribunale di Viterbo espone che, nelle more delle procedure esecutive, è entrata in vigore la legge n. 168 del 2017, che ha incluso tra i beni collettivi, come definiti dall’art. 3, comma 1, anche quelli previsti alla lettera d) della stessa disposizione, vale a dire «le terre di proprietà di soggetti pubblici o privati, sulle quali i residenti del comune o della frazione esercitano usi civici non ancora liquidati». Così definiti i beni collettivi – prosegue il rimettente – la citata legge n. 168 del 2017 ha stabilito, all’art. 3, comma 3, che per tali beni «[i]l regime giuridico […] resta quello dell’inalienabilità, dell’indivisibilità, dell’inusucapabilità e della perpetua destinazione agro-silvo-pastorale».

Il giudice dell’esecuzione rileva che, dalle relazioni dei professionisti incaricati nei giudizi a quibus, si evince che i beni oggetto delle procedure esecutive siano gravati da usi civici non ancora liquidati: in un caso (nel giudizio da cui origina l’ordinanza n. 114 del 2022) risulta una proposta di acquisto e di liquidazione, successivamente ritirata; nell’altro caso (nel giudizio da cui origina l’ordinanza n. 127 del 2022) non è pendente alcun iter di liquidazione. Quest’ultimo del resto – sottolinea il rimettente – può essere avviato solo dal proprietario e, dunque, nella fattispecie, unicamente dal debitore esecutato.

3.– Così ricostruite le premesse in fatto, il giudice a quo procede a delineare, con motivazioni del tutto corrispondenti nelle due ordinanze, il quadro normativo che regola gli usi civici, soffermandosi in particolare sulle novità apportate dalla legge n. 168 del 2017.

Il rimettente sottolinea come l’art. 3, comma 2, della legge n. 168 del 2017 non ricomprenda i beni di cui al citato art. 3, comma 1, lettera d) («le terre di proprietà di soggetti pubblici o privati, sulle quali i residenti del comune o della frazione esercitano usi civici non ancora liquidati») tra quelli che «costituiscono il patrimonio antico dell’ente collettivo, detto anche patrimonio civico o demanio». Per converso, l’art. 3, comma 3, nel riferirsi a tutti i beni di cui all’art. 3, comma 1, senza operare alcuna esclusione, andrebbe ad ascrivere al regime giuridico «dell’inalienabilità, dell’indivisibilità, dell’inusucapibilità e della perpetua destinazione agro-silvo-pastorale» anche la «proprietà di privati di cui all’art. 3, comma 1, lettera d)».

Il Tribunale di Viterbo osserva, inoltre, che l’art. 11 della legge 16 giugno 1927, n. 1766 (Conversione in legge del R. decreto 22 maggio 1924, n. 751, riguardante il riordinamento degli usi civici nel Regno, del R. decreto 28 agosto 1924, n. 1484, che modifica l’art. 26 del R. decreto 22 maggio 1924, n. 751, e del R. decreto 16 maggio 1926, n. 895, che proroga i termini assegnati dall’art. 2 del R. decreto-legge 22 maggio 1924, n. 751) ha distinto i terreni assegnati ai comuni e alle associazioni in due categorie: a) quelli «convenientemente utilizzabili come bosco o come pascolo permanente»; b) quelli «convenientemente utilizzabili per la coltura agraria». Solo per la prima tipologia di beni, la legge n. 1766 del 1927 avrebbe sancito «l’inalienabilità e l’impossibilità di mutamento di destinazione, salvo autorizzazione del ministro dell’economia nazionale (art. 12, comma secondo)», mentre per i beni di cui alla lettera b) avrebbe disposto un meccanismo più articolato. Sarebbero previste «la possibilità della ripartizione e della assegnazione a coltivatori diretti, a titolo di enfiteusi con obbligo delle migliorie (articoli 13 e seguenti) e [la] possibilità di affrancazione dei fondi a seguito di accertamento delle stesse (cfr. artt. 19 e 21)». Al contempo l’art. 21, terzo comma, della stessa legge ha stabilito che «[p]rima dell’affrancazione le unità suddette non po[ssano] essere divise, alienate, o cedute per qualsiasi titolo».

Da ciò il giudice a quo desume che «i divieti di alienazione, divisione o cessione di terre gravate da usi civici», nella legislazione più risalente, sarebbero «testualmente riferiti solo alle terre appartenenti alle collettività (o comunque a soggetti pubblici) non anche alle terre private gravate da diritti in favore delle collettività». A conforto di tale conclusione il rimettente riporta un ampio stralcio di una pronuncia dei giudici di legittimità (Corte di cassazione, sezione terza civile, sentenza 28 settembre 2011, n. 19792), che escluderebbe la possibilità di sottoporre a esecuzione forzata «beni del demanio civico», desumendone a contrario «che nella disciplina antecedente alla legge 168/17 non vi fosse una preclusione al pignoramento delle terre private gravate da usi civici in quanto le stesse non appartengono al demanio civico» (in tale senso il rimettente si rifà anche a Corte di cassazione, sezione seconda civile, ordinanza 22 gennaio 2018, n. 1534).

Di conseguenza, ad avviso del giudice a quo, il regime di inalienabilità, applicabile anche alle vendite disposte in sede esecutiva, sarebbe stato introdotto in modo innovativo dalla disposizione recata dall’art. 3, comma 3, della legge n. 168 del 2017, senza che la legge in questione abbia contemplato «alcuna disposizione transitoria relativa alle terre private gravate da usi civici per le quali alla data di entrata in vigore della legge non sia stato concluso il procedimento di liquidazione».

Il Tribunale di Viterbo rileva, infine, che la lettera della legge non permetterebbe di accedere a interpretazioni alternative della disposizione censurata, «che consentano di escludere dall’applicazione dell’art. 3 comma 3 della legge 168/17 i beni di cui alla lettera d) del comma 1 della predetta disposizione».

4.– In punto di rilevanza, il rimettente sostiene che, in entrambi i giudizi a quibus, sia necessario sciogliere preventivamente il dubbio di legittimità costituzionale concernente l’art. 3, comma 3, della legge n. 168 del 2017, al fine di poter emettere il decreto di trasferimento relativamente alle procedure esecutive interessate.

5.– Passando, dunque, a motivare la non manifesta infondatezza, il Tribunale di Viterbo ritiene, in ambo le ordinanze, che la norma censurata si ponga in contrasto con gli artt. 3, 24 e 42 Cost.

5.1.– Quanto all’art. 3 Cost., il rimettente reputa violato il principio di eguaglianza, poiché vengono disciplinate «in modo eguale situazioni giuridiche differenti».

In particolare, l’art. 3, comma 3, della legge n. 168 del 2017 assoggetterebbe al medesimo regime di inalienabilità sia la proprietà privata gravata da usi civici, di cui all’art. 3, comma 1, lettera d), della predetta legge, «sia i domini collettivi costituenti il demanio civico ex art. 3, comma 2 della legge n. 168/2017».

Sennonché, per il demanio civico, l’inalienabilità sarebbe giustificata «dall’appartenenza della terra alla comunità stessa di guisa che le limitazioni alla circolazione del bene [risulterebbero] funzionali a garantire il rispetto dello speciale procedimento previsto dalla legge [1]6 giugno 1927, n. 1766 e dal relativo regolamento di attuazione».

Per converso, le medesime esigenze non sarebbero ravvisabili per l’alienazione di «terre private gravate da uso civico». L’alienazione del bene sul quale insiste l’uso civico non comporterebbe di per sé la cessazione di quest’ultimo, sicché sarebbe del tutto irrilevante, per la comunità cui spetta il diritto di uso civico, la titolarità del diritto dominicale sul bene.

Di riflesso, ad avviso del giudice a quo, le disposizioni della legge n. 168 del 2017 sarebbero anche viziate da una intrinseca contraddizione, «in quanto da un lato il comma 2 dell’art. 3 ribadi[rebbe] la differenza esistente tra domini collettivi costituenti il demanio civico e le terre private, dall’altro assoggett[erebbe] entrambe le differenti tipologie di uso civico al medesimo regime di inalienabilità (art. 3, comma 3)». Verrebbe, in tal modo, obliterata la «natura non demaniale delle terre di proprietà di soggetti pubblici o privati, sulle quali i residenti del comune o della frazione esercitano usi civici non ancora liquidati».

Da ultimo, il rimettente ritiene che la normativa censurata violerebbe l’art. 3 Cost. anche sotto il profilo della irragionevole «compressione del diritto del proprietario».

5.2.– Proseguendo, il Tribunale di Viterbo sostiene che la norma censurata recherebbe un vulnus all’art. 24, primo comma, Cost., e nello specifico alla garanzia di poter agire in giudizio per la tutela dei propri diritti, che – secondo la costante giurisprudenza costituzionale – potrebbe essere fatta valere anche nella fase dell’esecuzione forzata (il rimettente richiama in tal senso le sentenze n. 225 del 2018, n. 198 del 2010, n. 335 del 2004, n. 522 del 2002 e n. 321 del 1998).

Ad avviso del rimettente, la norma censurata ometterebbe di considerare che il proprietario (debitore) di un bene gravato da uso civico in re aliena possa legittimamente utilizzare il fondo, con il solo limite di garantire alla collettività di fruire dei diritti di uso civico che vi insistono. Tale assetto normativo determinerebbe – secondo il giudice a quo – una situazione nella quale risulterebbe sommamente «probabile che l’esecutato si astenga (non essendovi obbligato) dal concludere il procedimento di liquidazione così da poter godere indefinitamente del bene stante la persistenza dell’uso civico non ancora liquidato».

Per converso, il creditore verrebbe privato, dalla normativa censurata, del «diritto di procedere ad esecuzione forzata» sul bene, difettando, al contempo, qualunque strumento di tutela vòlto alla conservazione del medesimo.

In particolare, secondo la prospettazione del Tribunale di Viterbo, a fronte di un proprietario che impedisse alla collettività l’esercizio dell’uso civico, la disciplina censurata esporrebbe gli stessi titolari dell’uso civico, ai quali fosse impedito illegittimamente l’esercizio del loro diritto, al rischio di non riuscire a ottenere neppure un risarcimento del danno per il mancato godimento del loro diritto, essendo il proprietario un «soggetto già inadempiente». Del resto, la «deficitaria situazione patrimoniale del proprietario», desumibile dalla sua condizione di debitore esecutato, «esporrebbe i beni ad un possibile decadimento in assenza della necessaria manutenzione che come noto richiede disponibilità economico finanziarie».

In definitiva, prosegue il rimettente, «l’inalienabilità del bene, in assenza di una normativa che ne escluda l’applicabilità ai procedimenti esecutivi, concorsuali ed in genere alle vendite coattive, pone il debitore nella condizione di sottrarsi alla vendita coattiva dei suoi beni senza che ciò si traduca nella tutela dei diritti esistenti in favore della collettività che la legge n. 168/2017 intende salvaguardare». Simile carenza di tutela si estenderebbe anche ai creditori, il cui debitore abbia concesso diritti reali di garanzia sul bene, nonché a quelli che, per ipotesi, vantino una pretesa riferita a prestazioni alimentari o di mantenimento.

Il giudice a quo conclude, dunque, nel senso che la previsione censurata, sottraendo le terre private gravate da usi civici all’esecuzione forzata, non solo non perseguirebbe gli interessi della collettività, ma oltretutto non terrebbe in alcuna considerazione gli interessi creditori. Ciò sarebbe suffragato dal confronto con le norme che prevedono il divieto di alienazione, in presenza di abusi edilizi, sanabili ma non debitamente sanati, divieto che, a ben vedere, non opera nelle procedure esecutive. In tale ipotesi è, infatti, concessa all’aggiudicatario la facoltà di provvedere alla sanatoria, entro centoventi giorni dall’emissione del decreto di trasferimento, il che consentirebbe – a parere del rimettente – un ragionevole bilanciamento tra i diritti dei creditori e gli interessi tutelati dalla normativa urbanistica. Un’analoga prospettiva, attenta al bilanciamento di interessi, sarebbe, invece, del tutto disattesa dalla norma censurata.

5.3.– Infine, il Tribunale di Viterbo ritiene che la citata norma sia lesiva del «regime di proprietà privata sancito dall’art. 42» Cost.

Per i beni su cui insistono usi civici in re aliena non sussisterebbero «ragioni di tutela della collettività che giustifichino la compressione del diritto di proprietà impedendone la circolazione, in assenza della preventiva conclusione del procedimento di liquidazione».

In particolare, il giudice a quo ritiene che l’inalienabilità non sarebbe giustificata dalla funzione sociale del diritto di proprietà, «dal momento che l’alienazione non interferirebbe con l’esercizio degli usi civici gravanti sul bene da parte della collettività».

Pertanto – secondo il rimettente – la «equiparazione del regime giuridico delle terre private gravate da uso civico a quello previsto per i domini collettivi costituenti il demanio civico fini[rebbe] per svilire il contenuto del diritto di proprietà limitandone l’esercizio ed equiparando (quanto al regime d[ell’]inalienabilità, dell’indivisibilità, dell’inusucapibilità e della perpetua destinazione agro-silvo-pastorale) il proprietario alla condizione dell’occupante in attesa di legittimazione».

Secondo il Tribunale di Viterbo, la norma censurata, «nonostante la formulazione apparentemente ricognitiva del regime esistente», introdurrebbe una disciplina innovativa che contemplerebbe un inedito e irragionevole regime di inalienabilità di beni di proprietà privata, «in assenza di una disciplina transitoria ed in assenza di indennizzo».

Quest’ultima circostanza, ad avviso del rimettente, impedirebbe oltretutto ai creditori di concentrare le proprie pretese perlomeno sull’indennità, contrariamente a quanto sarebbe consentito «in caso di esproprio ai sensi del T.U. 327/2001 [Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità. (Testo A)]».

In sintesi e in conclusione, la compressione del diritto di proprietà gravato da usi civici esistenti alla data di entrata in vigore della legge n. 168 del 2017 appare al rimettente lesiva «sia dei diritti del proprietario», «sia, in via mediata, del diritto di credito vantato dal ceto creditorio garantito dai beni del proprietario-debitore, apparendo pertanto irragionevole […] per violazione degli articoli 42 e 24 della Costituzione in relazione all’art. 3 della Carta costituzionale».

6.– Con atti di identico tenore, depositati l’8 e il 25 novembre 2022, è intervenuto nei giudizi il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha eccepito l’inammissibilità e comunque la non fondatezza delle questioni sollevate.

6.1.– L’Avvocatura generale dello Stato ritiene che il rimettente abbia fondato la sua argomentazione su un erroneo presupposto interpretativo, in quanto ha sostenuto che «nella disciplina antecedente alla legge 168/17 non vi fosse una preclusione al pignoramento delle terre private gravate da usi civici», portando a supporto di tale assunto alcuni arresti della Corte di cassazione (in particolare, sentenza n. 19792 del 2011 e ordinanza n. 1534 del 2018).

Per converso, secondo la difesa dello Stato, proprio tale giurisprudenza, e in particolare la pronuncia n. 19792 del 2011, condurrebbe all’opposta conclusione, secondo cui «un bene soggetto ad uso civico non p[otrebbe] essere oggetto di espropriazione forzata, per il particolare regime della sua titolarità e della sua circolazione, che lo assimila ad un bene appartenente al demanio».

Secondo la difesa dell’Avvocatura generale, contrariamente a quanto affermato dal rimettente, costituirebbe «principio pacifico che i beni gravati da usi civici, a chiunque appartenenti, s[iano] inalienabili, inusucapibili e, conseguentemente, non suscettibili di esecuzione forzata», in quanto l’esistenza dell’uso civico equiparerebbe «il regime del relativo bene alla demanialità». Ad avviso della difesa dello Stato ciò sarebbe coerente con il principio di cui all’art. 586 del codice di procedura civile, là dove questo prevede che al trasferimento della proprietà sull’immobile, per effetto della vendita forzata, consegue l’immediata liberazione del bene da pesi e formalità che impediscono l’immissione nel traffico giuridico.

6.2.– Nel merito degli asseriti contrasti con i parametri costituzionali, l’Avvocatura generale dello Stato afferma che non sarebbe violato «l’art. 3 Cost., perché le varie fattispecie previste dalla norma rispond[erebbero] tutte alle medesime finalità e, quindi, non po[trebbero] ritenersi tra loro differenti». Inoltre, non vi sarebbe contrasto con l’art. 24 Cost., in quanto la tutela del diritto di difesa incontrerebbe «il limite della tutela degli interessi pubblici evidenziati dalla giurisprudenza sopra richiamata». Infine, non si paleserebbe alcun vulnus all’art. 42 Cost., poiché «il vincolo sul bene [sarebbe] dato dall’uso civico e non certo dalla previsione dell’inalienabilità, che della presenza dell’uso civico» costituirebbe «una logica e coerente conseguenza».

Considerato in diritto

1.– Con due ordinanze di identico tenore iscritte ai numeri 114 e 127 del reg. ord. 2022, il Tribunale di Viterbo, sezione civile, in funzione di giudice dell’esecuzione immobiliare, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 42 Cost., questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 3, della legge n. 168 del 2017, nella parte in cui non esclude la «proprietà di privati di cui all’art. 3, comma 1, lettera d)» dalla previsione secondo cui «[i]l regime giuridico dei beni di cui al comma 1 resta quello dell’inalienabilità».

2.– Ad avviso del giudice a quo, la norma censurata si porrebbe in contrasto con l’art. 3 Cost., in quanto assoggetterebbe al medesimo regime di inalienabilità sia i beni che costituiscono demanio civico, di cui all’art. 3, comma 1, lettere a), b), c), e) ed f), della legge n. 168 del 2017, sia i beni di proprietà privata su cui insistono usi civici non ancora liquidati, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lettera d), della medesima legge, disciplina, quest’ultima, che il rimettente reputa comunque intrinsecamente irragionevole.

Secondo il Tribunale di Viterbo, la previsione censurata violerebbe altresì l’art. 24 Cost., e in particolare il diritto alla tutela giurisdizionale del ceto creditorio, in quanto impedirebbe di procedere alla vendita forzata di un bene gravato da usi civici. Al contempo, la medesima norma recherebbe pregiudizio allo stesso diritto alla tutela giurisdizionale dei titolari dell’interesse collettivo, inibendo loro «di poter ottenere [dal debitore esecutato] il risarcimento del danno nel caso in cui lo stesso impedis[ca] l’esercizio dell’uso civico».

Da ultimo, a giudizio del rimettente, la disciplina statale, sopra richiamata, violerebbe l’art. 42 Cost., poiché introdurrebbe un regime di inalienabilità che andrebbe irragionevolmente a comprimere il diritto di proprietà. L’impedimento all’esercizio della facultas disponendi non sarebbe, infatti, giustificato da ragioni riconducibili al paradigma della funzione sociale, posto che la circolazione del diritto di proprietà sul bene non andrebbe in alcun modo a interferire con l’esercizio del diritto di uso civico da parte della collettività. Oltretutto, non vertendosi in materia di espropriazione, non spetterebbe al proprietario, e di riflesso ai suoi creditori, neppure la corresponsione di un indennizzo.

3.– Nei giudizi è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha eccepito l’inammissibilità e la non fondatezza delle questioni sollevate.

In via preliminare la difesa dello Stato sostiene che il rimettente abbia fondato il suo ragionamento sull’erroneo presupposto interpretativo per cui, prima della entrata in vigore della legge n. 168 del 2017, il divieto di alienabilità non avrebbe connotato i beni di proprietà privata gravati da usi civici in re aliena.

Nel merito degli asseriti contrasti con i parametri costituzionali, la difesa dello Stato ha affermato che non sarebbero violati: «l’art. 3 Cost., perché le varie fattispecie previste dalla norma rispond[erebbero] tutte alle medesime finalità e, quindi, non po[trebbero] ritenersi tra loro differenti»; l’art. 24 Cost., in quanto la tutela del diritto di difesa incontrerebbe «il limite della tutela degli interessi pubblici» e «l’art. 42 Cost., perché il vincolo sul bene [sarebbe] dato dall’uso civico e non certo dalla previsione dell’inalienabilità, che della presenza dell’uso civico costitui[rebbe …] una logica e coerente conseguenza».

4.– Le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalle due ordinanze di rimessione hanno a oggetto la medesima norma e sono fondate su motivazioni perfettamente coincidenti: può essere dunque disposta la riunione dei giudizi, affinché le questioni siano decise con un’unica pronuncia.

5.– L’eccezione di rito sollevata dall’Avvocatura generale dello Stato relativamente alla erroneità del presupposto interpretativo non è fondata.

Come questa Corte ha già in passato rilevato, il vaglio concernente i presupposti ermeneutici attiene alla valutazione di merito delle questioni di legittimità costituzionale e non incide sulla loro ammissibilità (da ultimo, sentenza n. 73 del 2023, punto 5 del Considerato in diritto).

6.– Nel merito, questa Corte ritiene di esaminare in via prioritaria le censure sollevate in riferimento sia all’art. 3 Cost., sotto il profilo della intrinseca irragionevolezza, sia all’art. 42, secondo comma, Cost., censure che vanno a comporre l’unitaria questione relativa alla irragionevole compressione della proprietà privata.

La questione è fondata.

7.– Oggetto del lamentato vulnus è la norma concernente l’inalienabilità delle terre private gravate da usi civici non ancora liquidati (in base al procedimento regolato dalla legge n. 1766 del 1927), norma che il rimettente inferisce dall’art. 3, comma 3, della legge n. 168 del 2017, nel suo coordinamento con il comma 1 del medesimo articolo.

8.– In via preliminare, occorre inquadrare la previsione censurata nel contesto della legge n. 168 del 2017, avendo riguardo, per un verso, alla portata innovativa di tale disciplina dettata con riferimento ai «domini collettivi» e, per un altro verso, ai profili di necessario coordinamento con la pregressa normativa e, in particolare, con quella concernente il «riordinamento degli usi civici», contenuta nella legge n. 1766 del 1927 e nel relativo regolamento attuativo (regio decreto 26 febbraio 1928, n. 332, recante «Approvazione del regolamento per la esecuzione della legge 16 giugno 1927, n. 1766, sul riordinamento degli usi civici nel Regno»).

8.1.– Le disposizioni, da cui il rimettente desume la norma censurata, si collocano nel quadro di una disciplina, quella della legge n. 168 del 2017, che ha inteso fortemente valorizzare la proprietà collettiva e gli usi civici, in quanto strettamente correlati con la salvaguardia dell’ambiente e del paesaggio (da ultimo, sentenze n. 236 del 2022 e n. 228 del 2021).

La trama assiologica, sottesa alla nuova normativa, viene posta in rilievo sin dall’art. 1, comma 1, che richiama i principi costituzionali, di cui agli artt. 2 e 9 Cost., e implicitamente li collega, tramite il riferimento agli artt. 42, secondo comma, e 43 Cost., alla «funzione sociale» della proprietà e al paradigma della «utilità generale». Al contempo, la ratio ispiratrice della disciplina viene esplicitata, all’art. 2, comma 1, con la definizione dei «beni di collettivo godimento», quali «elementi fondamentali per la vita e lo sviluppo delle collettività locali», cui forniscono anche «font[i] di risorse rinnovabili», e quali «componenti […] del sistema ambientale» e del paesaggio, nella sua triplice dimensione «agro-silvo-pastorale», il che palesa la loro vocazione a salvaguardare il «patrimonio culturale e naturale» (art. 2, comma 1).

La legge n. 168 del 2017 si pone, dunque, in linea con la disciplina che, sin dal 1985, ha voluto preservare le «aree assegnate alle università agrarie e le zone gravate da usi civici», apponendo sulle stesse un vincolo paesaggistico (art. 1, primo comma, lettera h, del decreto-legge 27 giugno 1985, n. 312, recante «Disposizioni urgenti per la tutela delle zone di particolare interesse ambientale», convertito, con modificazioni, nella legge 8 agosto 1985, n. 431, poi riprodotto nell’art. 142, comma 1, lettera h, del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, recante «Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137»).

Al contempo, la nuova normativa si colloca nel solco già tracciato dalla giurisprudenza di questa Corte, che ha ritenuto di valorizzare le «numerose forme, molteplici e diverse […] di godimento […] di un bene fondiario da parte dei membri di una comunità» (sentenza n. 228 del 2021), in virtù del loro collegamento con l’ambiente e col paesaggio (sentenze n. 153, n. 152 e n. 151 del 1986 e, da ultimo, n. 236 del 2022, n. 228 del 2021, n. 71 del 2020, n. 178 e n. 113 del 2018, n. 103 del 2017).

In particolare, la legge n. 168 del 2017 ha dato, per un verso, specifico risalto all’interesse collettivo, assegnando la titolarità dei diritti di uso civico sia in re propria sia in re aliena alle collettività, per il tramite di enti esponenziali di diritto privato, giungendo a configurare come «comproprietà inter-generazionale» (art. 1, comma 1, lettera c) proprio quel paradigma della proprietà collettiva, che aveva animato il dibattito nell’Assemblea costituente (specie nella terza Sottocommissione della Commissione per la Costituzione, sedute del 25 e 27 settembre 1946).

Per un altro verso, la nuova legge ha esteso il campo applicativo del vincolo paesaggistico, e con esso la conformazione della proprietà privata, traendo ulteriori conseguenze dalla relazione fra usi civici e interesse paesistico-ambientale.

L’art. 3, comma 6, della legge n. 168 del 2017 dispone, infatti, che il vincolo paesaggistico «è mantenuto sulle terre anche in caso di liquidazione degli usi civici».

In aggiunta, l’art. 3, comma 8-quater, sempre della legge n. 168 del 2017 (ivi introdotto, di recente, in sede di conversione del decreto-legge 31 maggio 2021, n. 77, recante «Governance del Piano nazionale di ripresa e resilienza e prime misure di rafforzamento delle strutture amministrative e di accelerazione e snellimento delle procedure», nella legge 29 luglio 2021, n. 108) ha stabilito che i terreni sdemanializzati, a seguito delle permute fra domini collettivi e terreni del patrimonio disponibile dei comuni, delle regioni o delle Province autonome di Trento e di Bolzano, preservano «il vincolo paesaggistico».

In sostanza, in base alla disciplina prevista dall’art. 142, comma 1, lettera h), cod. beni culturali, il vincolo paesaggistico impedisce che siano apportate al terreno modifiche tali da determinare un pregiudizio alla conservazione degli usi civici, sul presupposto che la loro protezione incarni il valore paesaggistico difeso (art. 146, comma 1, cod. beni culturali).

Con la nuova legge n. 168 del 2017, che salvaguarda il vincolo paesaggistico anche sulle terre liberate dagli usi civici e sulle terre sdemanializzate (art. 3, commi 6 e 8-quater), il legislatore assegna al citato vincolo la funzione di preservare, ove e per quanto possibile, quei profili del paesaggio, che in precedenza erano garantiti dalla presenza degli usi civici e del demanio civico.

8.2.– La disposizione relativa al mantenimento del vincolo paesaggistico, anche a seguito della liquidazione degli usi civici (il già evocato art. 3, comma 6), è proprio quella che si fa carico – almeno in parte – della necessità di un coordinamento fra la legge n. 168 del 2017 e la precedente legge n. 1766 del 1927, con il relativo regolamento attuativo.

Specie in virtù della citata previsione viene, infatti, confermata – come anche questa Corte ha più volte sottolineato (sentenze n. 236 del 2022, n. 228 del 2021, n. 178 del 2018 e n. 103 del 2017) – la persistente vigenza della pregressa disciplina, che pure era animata da una differente ispirazione ideologica. Tale normativa presenta, in particolare, complesse intersezioni con profili implicati nell’odierna questione.

Da un lato, la legge n. 1766 del 1927 regola, per l’appunto, il meccanismo della liquidazione, cui la norma censurata fa implicito richiamo, là dove si riferisce alla proprietà privata gravata da usi civici «non ancora liquidati» (art. 3, comma 1, lettera d, cui fa rinvio l’art. 3, comma 3, della legge n. 168 del 2017).

Da un altro lato, la medesima legge del 1927 e il relativo regolamento disciplinano il regime dei beni, che è proprio il profilo sul quale si appuntano le odierne censure. Nello specifico, queste ultime traggono origine da una disposizione – l’art. 3, comma 3, della legge n. 168 del 2017 – che implicitamente richiama la precedente normativa, là dove afferma che il regime dei beni «resta» quello della inalienabilità, indivisibilità, inusucapibilità e perpetua destinazione.

8.2.1.– Ebbene, la legislazione dell’inizio del secolo scorso, di cui viene confermata la persistente vigenza, era inizialmente imperniata sull’obiettivo di superare le latenti conflittualità del mondo produttivo agrario (sentenza n. 236 del 2022). A tal fine, la disciplina si proponeva un’opera di riordino della materia (obiettivo evocato dalla stessa rubrica della legge), vòlta, per un verso, a dirimere i rapporti fra proprietà privata e usi civici e, per un altro, rispetto ai fondi assegnati ai comuni e alle associazioni, a «contempera[re] i bisogni della popolazione con quelli della conservazione del patrimonio boschivo e pascolivo nazionale», come recita l’art. 14 della legge n. 1766 del 1927 (e come sottolinea la sentenza n. 391 del 1989, che in tale profilo ravvisa in nuce una iniziale attenzione all’ambiente).

Nel perseguire i citati obiettivi, la legge del 1927 si avvale della basilare dicotomia fra iura in re aliena, gli usi civici che gravano sulla proprietà privata, e iura in re propria, il demanio civico.

Nell’ottica della disciplina del 1927 gli usi civici in re aliena sono destinati a procedimenti di liquidazione, affidati, a loro volta, a regole che definiscono i rapporti fra proprietà privata e interesse collettivo, tramite tre modalità: la liquidazione per scorporo, attuata attraverso l’attribuzione «in compenso dei diritti civici» di una porzione del terreno (artt. 5 e 6); quella effettuata con il pagamento di un canone annuo di natura enfiteutica in misura corrispondente al valore dei diritti, ove i terreni abbiano ricevuto «sostanziali e permanenti migliorie» o si tratti di «piccoli appezzamenti non aggruppabili in unità agrarie» (art. 7, primo comma); e – nel caso delle ex province pontificie – la liquidazione tramite affrancazione invertita, che consente, dietro pagamento di un canone a favore del proprietario e a particolari condizioni, di attribuire l’intero fondo al dominio (art. 7, secondo comma).

Anche a seguito dell’introduzione della legge n. 168 del 2017 permane il meccanismo liquidatorio, tant’è che a esso fanno implicito riferimento sia il comma 1, lettera d), sia il comma 6 dell’art. 3, ma – come si è già anticipato (punto 8.1.) – proprio quest’ultima disposizione introduce un elemento innovativo, quello della permanenza del vincolo paesaggistico, che continua a conformare la proprietà privata pur se liberata dagli usi civici.

8.2.2.– Quanto al regime dei beni, la legge n. 1766 del 1927 non assoggetta ad alcuna particolare regolamentazione la proprietà privata gravata da usi civici non ancora liquidati.

Per converso, la legge del 1927 si occupa del regime dei terreni che sono oggetto dei diritti in re propria – quelli che sono tali ab initio o che derivano dai citati procedimenti di liquidazione – e lo fa tramite una disciplina che trae origine dall’ulteriore distinzione fra: a) terreni convenientemente utilizzabili come bosco o come pascolo permanente; b) terreni convenientemente utilizzabili per la coltura agraria (art. 11). L’assegnazione alle due categorie di demanio serviva, appunto, a contemperare le esigenze di «conservazione del patrimonio boschivo e pascolivo nazionale» con i «bisogni della popolazione» (art. 14).

Per la prima categoria di beni l’art. 12, comma 2, della legge n. 1766 del 1927 introduce un regime di alienabilità condizionata all’autorizzazione del «Ministero dell’economia nazionale» e di immutabilità della destinazione.

Per la seconda tipologia di beni, la legge n. 1766 del 1927 delinea, invece, un meccanismo di ripartizione del terreno in unità fondiarie (art. 13), con loro attribuzione alle famiglie di coltivatori a titolo di enfiteusi (art. 19) e con l’obbligo di apportare migliorie che condizionano la possibile affrancazione del fondo (art. 21). E, proprio relativamente alla fase antecedente all’affrancazione, la legge stabilisce che le unità fondiarie non possano «essere divise, alienate o cedute per qualsiasi titolo» (art. 21, comma 3).

Infine, il regime dei beni assegnati ai comuni e alle associazioni si completa, nella normativa antecedente alla legge n. 168 del 2017, con le disposizioni del regolamento attuativo (il r.d. n. 332 del 1928) della legge n. 1766 del 1927, che introducono talune deroghe. In particolare, l’art. 39, primo comma, del regolamento prevede la possibile autorizzazione all’alienazione «di quei fondi che per le loro esigue estensioni non si prestano a qualsiasi forma di utilizzazione prevista dalla legge», mentre l’art. 41 si riferisce alla eventuale richiesta al «Ministro dell’economia» dell’autorizzazione a una diversa destinazione dei citati beni «quando essa rappresenti un reale beneficio per la generalità degli abitanti».

9.– La bipartizione fra iura in re aliena e iura in re propria, che domina la legge n. 1766 del 1927 e il relativo regolamento, permane anche nella legge n. 168 del 2017, la quale si sofferma, all’art. 3, proprio sul regime dei beni, che è il profilo sul quale si appuntano – sotto la particolare angolatura del regime della proprietà privata gravata dagli usi civici in re aliena – le odierne censure.

L’art. 3, comma 3, della legge n. 168 del 2017 dispone che «[i]l regime giuridico dei beni di cui al comma 1 resta quello dell’inalienabilità, dell’indivisibilità, dell’inusucapibilità e della perpetua destinazione agro-silvo-pastorale».

L’art. 3, comma 1, cui si riferisce il citato rinvio, qualifica, a sua volta, come beni collettivi sei tipologie di beni immobili. Cinque categorie, indicate alle lettere a), b), c), e), ed f), compongono, ai sensi dell’art. 3, comma 2, «il patrimonio antico dell’ente collettivo, detto anche patrimonio civico o demanio civico», e sono dunque di proprietà della collettività (iura in re propria). La sesta, indicata alla lettera d), si riferisce invece alle «terre di proprietà di soggetti pubblici o privati, sulle quali i residenti del comune o della frazione esercitano usi civici non ancora liquidati» (iura in re aliena).

Dal rinvio che l’art. 3, comma 3, opera all’intero comma 1 del medesimo articolo il rimettente desume che l’inalienabilità riguarda anche le terre di proprietà privata gravate da usi civici non ancora liquidati, ritenendo che non sussistano possibili itinerari ermeneutici idonei a escludere tale fattispecie dal regime dell’inalienabilità.

In effetti – come si preciserà di seguito (punti 9.1. e 9.2.) – la ricostruzione del coordinamento fra il comma 3 e il comma 1 dell’art. 3 non consente di limitare, in via meramente interpretativa, il raggio applicativo del regime dei beni di cui all’art. 3, comma 3, sì da escludere l’inalienabilità della proprietà privata gravata da usi civici non ancora liquidati. E questo, pur a fronte di indici ermeneutici, nei commi 1 e 3 dell’art. 3, che meritano un’attenta valutazione.

9.1.– Innanzitutto, risalta, nell’art. 3, comma 3, l’utilizzo del verbo «resta», che evoca una linea di continuità fra la disciplina relativa al regime dei beni antecedente alla legge n. 168 del 2017 e quella introdotta da quest’ultimo testo normativo.

In particolare, se a tale espressione si potesse attribuire un significato così pregnante da richiamare non solo un regime dei beni già presente nel precedente assetto normativo, ma anche il mantenimento del medesimo ambito applicativo di quel regime, se ne potrebbe inferire l’estraneità della proprietà privata gravata dagli usi civici in re aliena rispetto alla inalienabilità disposta dall’art. 3, comma 3, della legge n. 168 del 2017.

Come si è già anticipato (punto 8.2.2.), infatti, sia la legge n. 1766 del 1927, sia il relativo regolamento attuativo disciplinano soltanto il regime dei beni assegnati ai comuni e alle associazioni. Coerentemente, tanto la giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis, sentenze n. 71 del 2020, n. 178 del 2018, n. 113 del 2018 e n. 103 del 2017), quanto i giudici di legittimità (di recente, Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 10 maggio 2023, n. 12570; sezione terza civile, sentenza 28 settembre 2011, n. 19792) hanno sempre riferito al demanio civico quel particolare regime dei beni, che viene ritenuto sostanzialmente assimilabile a quello demaniale.

Dal silenzio della citata normativa circa il regime della proprietà privata gravata dagli usi civici non ancora liquidati, gli interpreti hanno, dunque, pacificamente inferito che non vi fossero, viceversa, limiti alla circolazione inter vivos e mortis causa di detta proprietà, che si trasmette con l’uso civico inerente al fondo e (come detto, a partire dal 1985) con il vincolo paesaggistico. In questi termini si sono espressi, anche di recente, i giudici di legittimità che, nell’ambito della già citata sentenza, pronunciata a sezioni unite (sentenza 10 maggio 2023, n. 12570), sulla questione della sdemanializzazione dei demani collettivi in vista di una procedura di espropriazione per pubblica utilità, hanno chiaramente differenziato il regime del demanio civico da quello della proprietà privata gravata da usi civici non ancora liquidati.

Tuttavia, benché sia evidente che la disciplina antecedente al 2017 escludesse per la proprietà privata un regime di inalienabilità, non può ritenersi sufficiente fare perno sul mero ricorso all’espressione «resta», utilizzata dall’art. 3, comma 3, per affermare in via interpretativa che la proprietà privata possa ancora, dopo l’introduzione della legge n. 168 del 2017, liberamente circolare.

Ostano a tale conclusione due ragioni.

La prima si rinviene nel dato testuale dell’art. 3, comma 3, che opera un rinvio inequivoco a tutte le previsioni dell’art. 3, comma 1, fra le quali rientra la lettera d), che espressamente fa riferimento alle «terre di proprietà di soggetti […] privati, sulle quali i residenti del comune o della frazione esercitano usi civici non ancora liquidati».

In particolare, è di assoluta evidenza il differente tenore letterale che presenta l’art. 3, comma 3, il quale rinvia tout court ai beni di cui al comma 1, rispetto alla formulazione dell’art. 3, comma 2, che invece esclude espressamente dal rinvio al comma 1 la sola lettera d), quella che, per l’appunto, ricomprende anche la proprietà privata gravata da usi civici non liquidati.

La seconda ragione è che, pur se un regime analogo a quello previsto dall’art. 3, comma 3, della legge n. 168 del 2017 si desume dalla precedente disciplina con riguardo ai diritti di uso civico in re propria, tuttavia, dal confronto tra le disposizioni della legge n. 1766 del 1927 (nonché quelle del r.d. n. 332 del 1928) e la nuova normativa introdotta dall’art. 3, commi 3, 8-bis e seguenti, della legge n. 168 del 2017, emergono, finanche rispetto al demanio civico, taluni tratti innovativi. E questi, oltre a richiedere un coordinamento con la pregressa disciplina, certamente si riverberano sul peso ermeneutico dell’espressione «resta».

Tale locuzione non può, dunque, da sola prevalere sull’altro chiaro indice testuale, costituito dal riferimento dell’art. 3, comma 3, al complesso delle previsioni di cui all’art. 3, comma 1, fra le quali è presente la lettera d), che ascrive ai beni collettivi la proprietà privata sulla quale gravano gli usi civici non ancora liquidati.

9.2.– E proprio con riguardo all’art. 3, comma 1, si impone, infine, un’ultima considerazione quanto al contenuto della norma censurata.

Deve, infatti, constatarsi che, nella fattispecie degli usi civici in re aliena, il medesimo bene è oggetto sia del diritto di proprietà, che qui non è collettiva, bensì pubblica o privata, sia del diritto collettivo di uso civico. Al contempo, è di palmare evidenza che i diritti di uso civico, per la loro stessa natura e per il loro contenuto, assegnano ai componenti della collettività facoltà di godimento promiscuo, non suscettibili di divisioni, che spettano ai singoli uti cives in ragione della loro appartenenza alla comunità, il che rende tali diritti incompatibili con una cessione o con un acquisto a titolo di usucapione.

Nondimeno non può ritenersi che l’art. 3, comma 1, riferendosi alla nozione di beni collettivi, abbia inteso disciplinare unicamente i tratti propri del solo diritto collettivo.

Vero è che normalmente il regime dei beni viene associato alla titolarità del diritto di proprietà, tant’è che la stessa dicotomia costituzionale fra proprietà pubblica e privata (art. 42, primo comma, Cost.) sottende una diversificazione dei rispettivi regimi, correlata prevalentemente alla titolarità del diritto dominicale.

Tuttavia, proprio il dato testuale dell’art. 3, comma 1, fa emergere la diversa scelta del legislatore di intendere quale fattore qualificante del regime del bene, e di riflesso della proprietà, non la titolarità del diritto, bensì la destinazione del bene; non a caso, nell’ambito della lettera d), dell’articolo appena citato, perde di rilevanza la stessa distinzione fra proprietà pubblica e privata, venendo entrambe le nozioni attratte nel regime dei beni collettivi.

In sostanza, dove l’art. 3, comma 1, lettera d), qualifica come beni collettivi le terre di proprietà privata e attribuisce a tali beni, in virtù del comma 3, il regime di inalienabilità, indivisibilità, inusucapibilità e perpetua destinazione, non intende affatto riferirsi al solo contenuto e ai tratti tipici dei diritti di uso civico, ma vuole specificamente rivolgersi alla proprietà privata, plasmando il suo regime sulle esigenze della destinazione impressa sul bene dalla presenza del diritto collettivo.

9.3.– Conclusivamente il tenore letterale dell’art. 3, comma 3, della legge n. 168 del 2017, nel suo coordinamento con il comma 1, e la ratio che si inferisce dal complesso della nuova disciplina comprovano che la proprietà privata gravata da usi civici non ancora liquidati sia “divenuta” inalienabile in forza di una norma avente carattere innovativo rispetto alla precedente disciplina.

Il rimettente ha, dunque, fondato le sue censure, focalizzate sulla norma concernente l’inalienabilità della proprietà privata, su un presupposto interpretativo non erroneo, contrariamente a quanto sostenuto dall’Avvocatura generale dello Stato.

10.– Ciò posto, la norma censurata non supera il vaglio della compatibilità con gli artt. 3 e 42, secondo comma, Cost.

10.1.– L’esigenza, sottesa alla disciplina degli usi civici, di preservare profili dell’ambiente e del paesaggio, a beneficio di interessi generali che si protendono anche verso le generazioni future, senza dubbio evoca una finalità idonea a plasmare la proprietà privata, al fine di renderla coerente con la funzione sociale (ex plurimis, sentenze n. 213 e n. 46 del 2021, n. 276, n. 71 del 2015, n. 167 del 2009, n. 482 del 2000). Nondimeno, non è sufficiente attrarre nel paradigma della funzione sociale lo scopo perseguito dal legislatore, per ritenere che la norma censurata sia automaticamente compatibile con l’art. 42, secondo comma, Cost.

Occorre, infatti, accertare – tanto più a fronte di una esplicita censura riferita al contrasto con l’art. 3 Cost. – che la disciplina vòlta a definire il modo di essere della proprietà privata, nello specifico di una proprietà terriera, nella sua relazione con interessi generali, non risulti affetta da illogicità, incoerenza e intrinseca irragionevolezza, oltre che da sproporzione, rispetto all’obiettivo prefissato (ancora sentenze n. 213 e n. 46 del 2021, n. 276 e n. 482 del 2000).

10.2.– Appare allora di immediata evidenza come, nella fase antecedente alla liquidazione degli usi civici, le ragioni di salvaguardia dell’ambiente e del paesaggio, attratte nella funzione sociale, si realizzino semplicemente preservando la piena tutela degli usi civici, in quanto essi stessi assicurano, grazie anche al vincolo paesaggistico, la conservazione della destinazione paesistico-ambientale del territorio.

Ebbene, simile istanza non è minimamente intaccata dalla circolazione della proprietà privata gravata da usi civici non ancora liquidati.

In primo luogo, i diritti di uso civico in re aliena, pur non riconducibili ad alcuno dei diritti reali tipizzati dal legislatore codicistico, presentano i tratti propri della realità: l’inerenza e lo ius sequelae, l’immediatezza e l’autosufficienza, l’assolutezza e l’opponibilità erga omnes.

Sono, dunque, proprio i caratteri tipici della realità a rendere la tutela e l’esercizio dei diritti di uso civico del tutto indifferenti alla circolazione del diritto di proprietà: gli usi civici seguono il fondo, chiunque ne sia titolare, grazie all’inerenza, e i componenti della collettività continuano a poter esercitare tutte le facoltà che gli usi civici conferiscono loro, essendo il diritto immediatamente opponibile a chiunque.

In secondo luogo, la proprietà privata gravata da usi civici reca con sé il vincolo paesaggistico e questo assicura che il proprietario non possa introdurre, né possa essere autorizzato ad apportare «modificazioni che rechino pregiudizio ai valori paesaggistici oggetto di protezione» (art. 146, comma 1, cod. beni culturali), i quali – nello specifico – si identificano, per l’appunto, con la conservazione degli usi civici.

In sostanza, la proprietà privata circola unitamente agli usi civici e al vincolo paesaggistico, incorporando in tal modo la destinazione paesistico-ambientale, con la conseguenza che chiunque acquisti il fondo non può compiere alcun atto che possa compromettere il pieno godimento promiscuo degli usi civici.

Anche solo in ragione della presenza di tali diritti e del vincolo paesaggistico, oltre che per quanto espressamente dispone l’art. 3, comma 3, il proprietario non può dividere il fondo, né effettuare interventi o trasformazioni che pregiudichino la fruizione collettiva e che sottraggano il terreno alla sua destinazione.

Né, certo, è dato temere che il diritto di uso civico non sia più opponibile per effetto di una eventuale vendita disposta in via giudiziale in seno a una procedura esecutiva, come assume l’Avvocatura generale dello Stato, evocando l’art. 586 cod. proc. civ. Tale previsione, infatti, specifica testualmente che la cancellazione ordinata dal decreto che trasferisce il bene aggiudicato attiene alle «trascrizioni dei pignoramenti e delle iscrizioni ipotecarie, se queste ultime non si riferiscono ad obbligazioni assuntesi dall’aggiudicatario a norma dell’art. 508 [… nonché di quelle, sempre relative ai pignoramenti e alle iscrizioni ipotecarie] successive alla trascrizione del pignoramento».

L’art. 586 cod. proc. civ. riguarda, pertanto, le pretese fatte valere dai creditori e, dunque, fattispecie diverse dai diritti di uso civico. Oltretutto, l’opponibilità degli usi civici opera a prescindere dal rispetto di oneri pubblicitari (come si evince anche dall’art. 173-bis, primo comma, numero 8, disp. att. cod. proc. civ.).

10.3.– L’inalienabilità della proprietà privata gravata da usi civici non ancora liquidati non presenta, dunque, alcuna ragionevole connessione logica con la conservazione degli stessi e, per il loro tramite, con la tutela dell’interesse paesistico-ambientale. Conseguentemente, non può ipotizzarsi una incidenza neppure sulla funzione di tutela dell’interesse paesistico-ambientale, in vista dell’eventuale richiesta del proprietario di accedere al meccanismo di liquidazione.

La scelta del legislatore del 2017 di dare continuità all’interesse paesistico-ambientale, mantenendo il vincolo paesaggistico, anche una volta che gli usi civici siano stati per ipotesi liquidati (art. 3, comma 6), è correlata alla mancata irreversibile trasformazione del territorio prima della eventuale liquidazione, ma non palesa alcuna connessione con le vicende circolatorie del diritto di proprietà, antecedenti al possibile ricorso a tale procedimento.

Solo la conservazione del territorio ha riverberi sulla disciplina di cui all’art. 3, comma 6, e, nella fase antecedente alla liquidazione, la protezione dei valori paesistico-ambientali si impone, per le ragioni esposte, a qualunque soggetto acquisti il fondo, in virtù della mera presenza degli usi civici e del vincolo ambientale a essi correlato.

In conclusione, l’inalienabilità regola un profilo della proprietà privata gravata da usi civici non ancora liquidati che, sotto qualunque prospettiva lo si consideri, si dimostra totalmente estraneo alla tutela di interessi generali.

Ne discende una irragionevole conformazione e, di riflesso, una illegittima compressione della proprietà privata, tanto più ingiustificata, in quanto viene introdotta ex novo proprio dalla medesima legge, che contestualmente potenzia gli strumenti conformativi della proprietà privata.

Con la nuova disciplina, infatti, il proprietario non è più tenuto solo a preservare gli usi civici, che gravano sul suo fondo, e a corrispondere per la loro eventuale liquidazione un valore costituito da una parte del fondo o da un canone enfiteutico o dall’intera proprietà, salva l’acquisizione di un credito corrispettivo, ma, anche dopo aver liberato il terreno dal diritto collettivo, resta ancora vincolato alla conservazione dell’interesse paesistico-ambientale che, attraverso la memoria della pregressa presenza degli usi civici, intende dare continuità al valore paesaggistico in precedenza tutelato.

11.– Per le ragioni esposte, l’art. 3, comma 3, della legge n. 168 del 2017 si pone in contrasto con gli artt. 3 e 42, secondo comma, Cost., nella parte in cui, riferendosi ai beni indicati dall’art. 3, comma 1, non esclude dal regime della inalienabilità le terre di proprietà di privati, sulle quali i residenti del comune o della frazione esercitano usi civici non ancora liquidati.

Sono assorbite le ulteriori censure.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 3, della legge 20 novembre 2017, n. 168 (Norme in materia di domini collettivi), nella parte in cui, riferendosi ai beni indicati dall’art. 3, comma 1, non esclude dal regime della inalienabilità le terre di proprietà di privati, sulle quali i residenti del comune o della frazione esercitano usi civici non ancora liquidati.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l’11 maggio 2023.

F.to:

Silvana SCIARRA, Presidente

Emanuela NAVARRETTA, Redattrice

Igor DI BERNARDINI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 15 giugno 2023.